venerdì 26 dicembre 2008

Banchetto di Natale

Maria era incinta, quando a lei e a Giuseppe fu ordinato di mettersi in marcia per la piccola città di Betlemme, dove avrebbero dovuto registrarsi presso l'Ufficio del Censimento Romano. Giuseppe caricò Maria sull'asino e partirono.
Fu un viaggio lungo, ma la sera del terzo giorno arrivarono finalmente a Betlemme. Maria, come tutte le donne incinta, aveva una gran fame e girarono per il centro in cerca di un posto in cui mangiare. Furono indirizzati alla Pizzeria Bella Napoli, ma era già piena di gente arrivata in paese per il censimento e non c'era neanche posto per mangiare in piedi. La pizzeria Vesuvio aveva addirittura finito la pasta per la pizza e aveva chiuso prima del tempo. La pizzeria Posillipo non aveva nemmeno aperto, perchè il pizzaiolo era andato a farsi censire in Galilea, da dov'era immigrato, e la pizzeria Amalfi era chiusa per le vacanze invernali.
"Ma io ho fame," si lamentò Maria con Giuseppe.
"Ho solo queste tre rape," rispose Giuseppe dopo aver frugato nella tasca della tunica.
"Pazienza, magerò quelle," disse Maria, e prese a sgranocchiare le rape.
Dopo poco tempo, Maria fece un urlo e si premette la pancia: "che male, Giuseppe!"
"Per forza, hai mangiato le rape crude!" fece lui.
"Ma no, scioccone, questo è Gesù che ha deciso di venire fuori," disse lei sorridendo, "andiamo a cercare un albergo e una levatrice per il parto."
La levatrice la trovarono, ma con gli alberghi furono sfortunati come con le pizzerie: tutti pieni di gente tornata al paese dagli angoli più remoti dell'impero.
Gura che ti rigira, trovarono, proprio al centro del paese, una stalla diroccata, chiusa da una cancello senza lucchetto. Entrarono e si prepararono per il parto.
La levatrice stava con Maria, mentre Giuseppe eseguiva i loro ordini andando a cercare acqua, scaldandola e lavando pezze di panno.
Cercando qualcosa che assomigliasse a una culla, Giuseppe trovò un bue appisolato. Prese la greppia da cui il bue mangiava, le diede una ripulita e la riempì di paglia.

Avevano appena finito di lavare Gesù, che sentirono bussare alla staccionata. Giuseppe andò a vedere e si trovò di fronte a tre signori riccamente vestiti, con servitori che tenevano per le briglie i loro cavalli e dei dromedari carichi di casse.
"E voi chi siete?"
"Siamo dei Re Magi," risposero loro. "Siamo arrivati qui seguendo una stella cometa che, secondo i nostri calcoli, doveva portarci dove sarebbe nato Salvatore, il Re degli Uomini. C'è qui un Re di nome Salvatore?"
"No," rispose Giuseppe, "qui c'è solo un bambino di nome Gesù".
"Si vede che i nostri conti non erano del tutto corretti," dissero loro entrando, "abbiamo comunque dei doni per lui."
"C'è qualcosa da mangiare, tra quei doni?" chiese Maria, che aveva ancora più fame di prima.
"No, abbiamo delle cose ben più preziose: oro, incenso e mirra."
"Pazienza", disse Maria, "e grazie comunque per questi preziosi regali".

Quella notte tutti dormivano a Betlemme, e non sentirono un angelo che volava cantando: "E' nato il Salvatore! Andate nella stalla a Betlemme!"
Lo sentirono però i cani dei pastori che dormivano sulle colline intorno al paese con le loro greggi, e iniziarono ad abbaiare furiosamente.
"Che succede? I ladri!" urlavano i pastori svegliandosi ai latrati dei loro cani, ma invece dei ladri trovarono questo angelo che cantava.
'Ieri sera ho bevuto troppo,' pensava un pastore mentre l'angelo annunciava l'avvento del Salvatore.
"E chi sarebbe questo Salvatore?" chiedevano all'angelo.
"Il Re degli Uomini," rispondeva lui battendo le ali fermo sul posto.
"E il Re degli Uomini nasce in una stalla?" insistevano increduli.
"Proprio così," diceva l'angelo,
"Secondo me quest'angelo non ha tutte le rotelle a posto," diceva un pastore.
"Ma non vedi come vola?" obiettava un altro, "dobbiamo tutti scendere in paese e cercare la stalla," concludeva un altro risolutamente.

Betlemme avea delle stradette tutte strette, che in breve tempo si riempirono di pecore. Una signora che si svegliò, s'affacciò alla finestra e vide i vicoli di Betlemme che sembravano pavimentati di lana bianca, e in mezzo alla lana galleggiavano i pastori, i loro somari carichi e i soliti cani che abbaiavano. 'E' nevicato proprio tanto stanotte', pensò la signora scambiando la lana per neve, e tornò a dormire sotto le coperte.
Alcuni pastori avevano raggiunto la stalla diroccata. "E' qui che è nato Salvatore?"
Giuseppe pensò che qualcuno doveva aver fatto uno scherzo: "No, quì c'è solo il piccolo Gesù, col babbo e la mamma."
"Ve lo dicevo, io, che l'angelo non aveva tutte le rotelle a posto," brontolò il pastore di prima.
"Non fa niente, noi siamo venuti ad adorare il bambino nato in questa stalla." Presero dei dono dai loro asini ed entrarono.
"Avete qualcosa da mangiare?" chiese Maria.
"Certamente, signora: siamo pastori!" Mostrarono i loro doni: carne, formaggi, sacchi di lana.
Giuseppe e i magi, aiutati dai pastori, improvvisarono un lungo tavolo con le assi del tetto. I pastori accesero il fuoco per la griglia. In poco tempo, erano tutti seduti a tavola, con Maria a capotavola e Gesù saldamente attaccato alla sua mammella.
I pastori portavano in tavola i loro cibi: costine d'agnello fritte in olio d'oliva, stufato di montone allo yogurt, grandi forme di pane, rotolini di pasta con le verdure, anfore di vino, carciofi al tegame, cosciotto di pecora...
"Molto meglio questo cibo, delle delicatezze che mangiamo sempre a palazzo," gioivano i Re Magi brandendo dei coscioti d'agnello arrosto.
"Posso avere un pò di vino?" chiedeva Maria.
"Non ti rovinerà il latte?" protestava Giuseppe.
"La sua signora ha molto faticato, stanotte. Un bicchiere non può che farle bene," concluse un pastore, versandole il vino dall'anfora.
E bachettarono insieme, Magi, pastori, Maria, Giuseppe, servitori e levatrici, finchè non arrivò l'alba.

venerdì 12 dicembre 2008

L'uomo-lupo 3

L'uomo disse che doveva andare a fare un bisognino, poi avrebbe ripreso il racconto. Non andò nel bagno dell'osteria, ma verso l'uscita. "Sarà uno di quelli a cui piace fare la pipì all'aperto," pensai.
Non appena uscì, si sentì un cane abbaiare, poi un altro, e di seguito una successione di cani sempre più lontani nella vallata. Dopo un pò s'udì uno stridio, a metà tra il rumore di un'unghia strisciata su una lavagna e una finestra che gira velocemente sui cardini poco unti. L'uomo rientrò con il suo strano passo, mettendo qualcosa dentro la bisaccia che portava a tracolla del suo cappotto. Dalla sacca usciva una specie di fazzoletto nero, che l'uomo spinse subito dentro. Mentre la cosa nera spariva, mi parve di riconoscerla come un'ala di pipistrello. Evidentemente, l'impressione del racconto mi aveva suggestionato.

Mio padre fece quello che aveva detto. Quattro lupacchiotti li diede a un pastore per stare dietro alle greggi, mentre uno, il più sano e robusto, lo tenne per sè, pensando di addestrarlo alla caccia.
In quello stesso periodo, conobbe una donna del paese. Si sposarono e lei rimase incinta. Le visite della lupa si facevano via via più rade. Era arrivato poi un autunno molto freddo e, pensavano tutti, più che dei cuccioli perduti doveva occuparsi di trivare preda a sufficienza.
Passarono così i mesi dell'inverno, arrivò e trascorse la primavera e, poco prima del parto, mio padre ebbe uno strano incontro. Una notte si svegliò con la gola secca per la sete e lo stomaco pesante e, aprendo gli occhi, si vide in faccia il muso della lupa. Gli stava con le quattro zampe puntate sul corpo e con la bocca aperta, le labbra tirate e i denti bene in vista.
"Ora mi uccide," pensò mio padre, che sapeva bene come la lupa, con un solo morso, avrebbe potuto recidergli la gola. La lupa, invece, rimase immobile per un lungo tempo, guardandolo fisso negli occhi. Poi si spostò verso mia madre, che lì di fianco dormiva senza accorgersi di nulla, e le leccò il pancione.
Mio padre, ripresosi dal terrore, s'alzò per difendere la moglie, ma la lupa balzò via e sparì dalla finestra, così velocemente che lui pensò di aver sognato.
Quando mia madre partorì, il figlio era tutto peloso, con due grosse narici, unghie spesse, piedi lunghi e, ciò che era più orribile, lunghi denti canini. In un neonato! Quel bambino, lo avrà forse intuito, ero io.
La gente del paese, conoscendo tutta la storia, disse che era la maledizione della lupa; ma mio padre rispondeva che erano tutte scemenze. Dissero che la lupa era venuta a riprendersi i figli nella pancia di sua moglie; e mio padre cominciò a dubitare. Suggerirono che, vedendo i suoi lupacchiotti in mano all'uomo, la lupa aveva preso un uomo e lo aveva fatto diventare lupo; e mio padre, che non vedeva la peluria cadere, che sentiva mia madre urlare quando mi allattava, che più tagliava le unghie, più le queste ricrescevano lunghe e robuste, decise di restituire i lupacchiotti alla loro madre.
Andò dai pastori e li pagò molto più di quanto non avesse ricevuto da loro per riavere indietro i quattro lupacchiotti, oramai grandicelli. Il suo cucciolo, però, lo volle tenere. Perchè ci si era affezionato; in odio alla lupa; perchè -pensava- "una lupa saprà contare anche fino a quattro, ma certamente non fino a cinque."
In effetti, dopo che mio padre riportò i quattro cuccioli il mio aspetto divenne più simile a quello degli altri neonati. I peli caddero; le unghie, una volta tagliate, ripresero a crescere più tonde e delicate; quando vennero su gli altri denti da latte, i canini non si notarno più di tanto.
Rassicurato, mio padre riprese la caccia, che aveva trascurato per quasi un anno, facendosi sempre accompagnare dal suo giovane lupo. Insieme trascorrevano lunghe giornate, da prima dell'alba a sin dopo il tramonto. Il lupo lo adorava e imparava: puntare, riportare, cercare la preda nel folto della macchia.
Un giorno andarono fino in alta montagna, su per ripide pietraie e lungo sentieri scavati a metà di ripide pareti di roccia. Proprio mentre stavano lungo uno di quei sentieri, mio padre iniziò ad arrampicarsi verso un nido di falco abbastanza accessibile, mentre il suo lupo-cane lo attendeva nervoso più in basso. Da lì mio padre vide arrivare la lupa, che stava percorrendo proprio quel sentiero, ed ebbe un brutto presentimento.
Il giovane lupo non riconobbe la madre, ma una preda come un'altra e gli si scagliò contro. La lupa, più esperta, finse una fuga e, non appena il lupo gli fu alle spalle, si voltò con sorprendente velocità e lo azzannò appena sotto la gola.
In quello stesso momento, riconobbe dall'inconfondibile odore che si trattava del suo quinto cucciolo. Perse ogni desiderio di combattere, lasciò la presa e suo figlio, prendendo il sopravvento, le fu subito addosso. Nella mischia, la lupa scivolò e precipitò nel precipizio.
Mio padre, intanto, era ridisceso sul sentiero. Chiamò il suo lupo addomesticato e tornò verso casa.
Da quel giorno, la mia trasformazione cessò lì dov'era arrivata. Le dita dei miei piedi rimasero troppo lunghe e questo mi costringe a zoppicare. Forse è per questo che, anche se sono cresciuto in questo paese, non posso dire di avere dei veri amici, neanche adesso che sono vecchio.
Ma io mi arrangio lo stesso e, se vuole dare un contributo a questo mio arrangiarmi, lasciarmi un qualche soldo per pagarmi un bottiglione di vino, vorrà dire che questa mia storia non l'ha lasciata indifferente.


"Ma certo, certo": tirai fuori il portafolgi e gli allungai una delle mie poche banconote. Lui la prese, se la mise in tasca e s'alzò dal tavolo. "Grazie mille signore, grazie mille."
Allontanandosi verso la porta, tirò fuori la cosa nera dalla bisaccia e prese a sgranocchiarsela. Non ho mai voluto sapere di cosa si trattasse.
Quella notte dormii con la porta chiusa bene a chiave e la mattina dopo, poco dopo l'alba, l'omino che m'aveva portato in paese mi riaccompagnò al mio treno per il mare.

lunedì 8 dicembre 2008

L'uomo-lupo 2

Mio padre non era di qui; ci passava ogni anno vendendo attrezzi e comprando pelli, lana e formaggio. La sua passione, però, era la caccia: caccia per mangiare, caccia per le pelli, caccia su commissione da parte dei contadini per proteggere i pollai da volpi e faine; caccia per il solo gusto di uccidere, come con falchi e poiane. S'inerpicava su per le pietraie a caccia di aquile, in mezzo a grandi radure invase dai rovi in cerca del cinghiale, giù per il letto dei torrenti alla ricerca dell'orso, la preda più ambita.
Un pomeriggio, quasi al tramonto, seguendo le impronte di un daino su per una fosso secco in mezzo al bosco, si trovò di fronte a una grossa lupa. La lupa, al contrario di quanto fanno sempre i lupi, non scappò. Si trovava in mezzo al fosso, appena sopra mio padre.
Mio padre m'ha raccontato tante storie di caccia, e ogni volta che le raccontava c'era qualcosa di diverso: il cervo era più lontano, le anatre nel carniere dieci volte tante; ma la storia del suo incontro con la lupa me l'ha detta sempre con le stesse parole; le stesse pause, persino.
La bestia si trovava appena sopra di lui, e ringhiava furiosamente. Lui imbracciò il fucile e prese la mira, ma la lupa ancora non scappò, né attaccò. Iniziò invece a guaire, a fare un guaito assai simile -diceva mio padre- al pianto di un neonato in lontananza. Per un attimo esitò: sparare subito o aspettare e vedere cosa sarebbe successo dopo?
In quell'attimo, la lupa s'acquattò sulle zampe posteriori e balzò, passandogli sopra di una buona spanna. Quando si girò, era già sparita nel bosco.
Fu in quel momento che mio padre sentì un altro guaito, più debole, provenire dalla scarpata del torrente. Scostò alcune frasche e vide, in una buca lì scavata, un'intera cucciolata di piccoli lupi. "Ecco perché non scappava: la madre temeva per i suoi cucciolotti." Pensò un attimo sul da fare, poi tirò su i cucciolotti, che erano cinque, li mise nel carniere come fosse una culla e se li portò via, pensando che uno avrebbe potuto addestrarlo per la caccia, gli altri venderli a dei pastori per fare la guardia al gregge.
Lungo la via del ritorno, sentiva di tanto in tanto un rumore di foglie calpstate, ora dietro a lui, ora davanti, a destra o a sinistra. "Seguimi pure, mamma; i tuoi cuccioli ormai li hai perduti per sempre."
Arrivato alla locanda, a quel tempo era proprietà del padre di Orfea, disse di mettere i cuccioli nel pollaio e di chiuderlo ben bene, perchè quella notte la lupa sarebbe passata per riprenderseli; e così fu. Fino all'alba si sentì ululare e guaire, di madre e di figli; e un gran grattare alla porticina del pollaio.
La mattina successiva, però, i cuccioli li si trovò lì dove li avevano lasciati, e della lupa erano rimaste solo le tracce a terra: un gran ghirigoro di cerchi, di veloci ritirate in linea retta verso il bosco, di zampe ben puntate prima d'un salto contro la porta.
"Ti conviene fare degli altri cuccioli, mamma, perché questi non li rivedrai mai; e qualora t'incontrassero, quando saranno addestrati da caccia o guardia, ti converrà tenerti alla larga da loro."


Questa storia, devo dire, m'aveva affascinato. Chiesi alla signora Orfea un'altra caraffa di vino, riempii il bicchiere dell'uomo col cappotto e lo pregai di continuare.

venerdì 5 dicembre 2008

L'uomo-lupo 1

Leggere è bello perchè distrae, ma a volte la distrazione ha conseguenze che non riusciamo a controllare.
Mi trovavo col mio zaino in una grande e affollata stazione, in attesa del treno che mi avrebbe portato a una località di mare per passare qualche giorno di vacanza con alcuni amici. In attesa del treno regionale in ritardo al binario 10, me ne stavo appollaiato sullo zaino a leggere un libro d'avventura, che parlava di esplorazioni in terre lontane, piene di misteri e pericoli. "Ah, come sarebbe bello se io stessi prendendo un battello a pale che mi portasse all'interno della foresta pluviale, invece che il treno che mi porterà a una spiaggia pigiata da milioni di turisti," pensavo tra me e me. Sentii l'altoparlante gracchiare qualcosa, ma non ci feci caso. Poi vidi diverse persone vestite con camicie a fiori avviarsi verso il sottopassaggio, da cui venivano in direzione contraria persone che indossavano i soliti abiti di chi va al lavoro. Dopo pochi minuti arrivò un trenino con tre vagoni stinti e arrugginiti e salii. Ben presto m'addormentai. Mi svegliai solo quando il treno arrivò all'ultima stazione della linea: una casetta con l'intonaco scrostato, da cui partiva una stradina sterrata, in un paesaggio chiuso da alte montagne coperte di pascoli e boschi.
Un omino che stava uscendo dal treno, l'ultimo dei pochi passeggeri, m'assicurò che, no, non si trattava della stazione di Santa-Maria-al-Mare, ma di quella di Selva-di-Valle-Buia. Temendo di rimanere solo in quella stazione isolata, chiesi all'omino di darmi un passaggio in paese, dove, mi assicurò, avrei potuto passare la notte in attesa del treno che mi avrebbe riportato, il giorno dopo, alla grande stazione cittadina, e quindi al mare.
Mentre l'omino mi portava al paese guidando il suo furgone per una strada tutta a tornanti, chiamai i miei amici col telefonino dicendo loro che, per qualche stranissimo errore delle ferrovie, ero finito in un isolato posto di montagna invece che al campeggio dove avrei dovuto raggiungerli. E mentre dicevo questo, capii cos'era successo: il gracchiare dell'altoparlante diceva che il treno per il mare era stato dirottato su un altro binario, per questo i viaggiatori vestiti da vacanza avevano lasciato la banchina; mentre le persone provenienti dal sottopassaggio erano quelli che dovevano prendere il treno su cui ero salito io per sbaglio, ed erano scesi uno dopo l'altro alle stazioni sparse lungo la linea ferroviaria, tranne me e l'omino che mi stava conducendo al paese.
"Lì può mangiare, e hanno anche delle stanze per dormire," mi disse l'uomo lasciandomi di fronte a una drogheria-bar. Lo ringraziai e entrai nel locale buio e, mi sembrò, anche abbastanza puzzolente di legno marcio, di cavolo stufato e di sigarette fumate nel tempo in cui nei bar si poteva ancora fumare.
Nel locale c'erano solo l'anziana barista, un paio di giovani boscaioli e, seduto a un tavolo in angolo oscuro, un uomo infagottato in un cappotto fuori stagione, che non appena mi sentì entrare si girò con la faccia rivolta un pò all'insù; più che per guardarmi, sembrava, per annusarmi.
La signora aveva un modo di fare spiccio, ma non del tutto sgarbato. Mi assicurò che la notte avrei potuto dormire lì senza pagare una fortuna e mi promise che la mattina successiva suo nipote m'avrebbe riportato alla stazione. Ero proprio fortunato, mi disse, perchè aveva appena riscaldato la zuppa di cotiche di maiale e verza che aveva preparato pochi giorni prima. Non era proprio la cena leggera a base di pesce fresco e insalata che m'ero immaginato prima di partire, ma bisognava accontentarsi.
Non appena mi fui seduto al tavolo di fronte al tegame di cotiche e verza, l'uomo col cappotto s'alzò e venne dalla mia parte. Zoppicava, sembrava, da entrambe le gambe. "Disturbo?" chiese sedendosi senza attendere la mia risposta.
"Lascia stare il giovanotto!" urlò dal bancone la barista.
"Non ti preoccupare, non te lo mangio mica il tuo turista," le ringhiò dietro lui.
"Vuole favorire?" gli chiesi spostando verso di lui il tegame troppo pieno.
"Grazie", disse lui, e rivolto alla donna: "Orfea, portami un piatto."
Mise nella sua ciotola una mestolata di cotiche, poi iniziò a ripulirle pazientemente da ogni più piccolo frammento di verza. "Un cibo da pecore!" diceva tra sè e sè rimettendo le verdure nel tegame, "Pecore!". Mi sembrò che, pronunciando la parola "pecore" gli occhi gli brillassero quasi di gioia.
Mangiammo in silenzio, lui si bevve un litro di vino almeno, poi mi guardò storcendo la testa dal basso in alto:
"Questo è un posto sfortunato dove la gente arriva solo per sbaglio. Quanto sfortunato, lei non può saperlo ed è meglio che non lo sappia."
E io, in verità, non avevo nessuna voglia di saperlo, ma lui continuò a parlare e mi raccontò questa storia.